Il silenzio dietro la porta

Restare chiusi in casa per giorni, settimane, a volte mesi. Nessun contatto diretto con amici, parenti, coetanei. Nessuna scuola, università, lavoro, né semplicemente il bisogno di uscire a “prendere una boccata d’aria”. Non si tratta di pigrizia, né di mancanza di voglia: è qualcosa di più profondo. È una forma di ritiro, spesso silenzioso, a volte invisibile. È quello che viene chiamato fenomeno hikikomori, termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte”.

Negli ultimi anni questo fenomeno si è diffuso anche in Europa, e in Italia in particolare. Sempre più giovani — ma anche adulti — smettono di avere una vita sociale, chiudendosi dentro la propria stanza, spesso dietro uno schermo.

Cos’è davvero l’hikikomori?

Non è una diagnosi clinica, ma una condizione psicologica e sociale. Le persone che vivono un ritiro sociale estremo evitano ogni tipo di relazione diretta con l’esterno. Possono passare mesi senza vedere nessuno al di fuori della famiglia, o addirittura evitare anche i familiari stessi.

Non si tratta solo di “timidezza” o di fasi temporanee. Spesso l’hikikomori è legato a forti vissuti di ansia sociale, paura del giudizio, bassa autostima, esperienze di fallimento scolastico o lavorativo, o una sensibilità emotiva molto elevata in un contesto percepito come eccessivamente competitivo e ostile.

Cosa si prova dentro la stanza?

Chi vive questa esperienza spesso parla di una combinazione di angoscia, senso di inadeguatezza, paura di non essere all’altezza delle aspettative altrui, o del mondo stesso.

Nel libro “I miei giorni alla libreria Morisaki” di Satoshi Yagisawa, la protagonista, colpita da una delusione amorosa, si ritira improvvisamente dalla vita lavorativa e sociale. Scrive:

Mi sembrava che il mondo andasse avanti senza di me. Ero come una virgola dimenticata in una frase già conclusa.”

Questo tipo di distacco può nascere da piccole fratture: una bocciatura, un’umiliazione, una delusione affettiva. Ma spesso non è il “fatto” in sé, quanto il modo in cui lo si vive interiormente.

Anche la letteratura ne parla

Nel romanzo “La ragazza del convenience store” di Sayaka Murata, la protagonista vive ai margini della società, scegliendo una vita solitaria e fuori dagli schemi. Dice:

Perché devo fingere di essere normale? Io sto bene così. È il mondo che mi guarda come se fossi rotta.”

E in “Ragioni per continuare a vivere” di Matt Haig, lo scrittore racconta in prima persona l’isolamento causato dalla depressione e dall’ansia:

La mente può diventare una gabbia. E quando sei dentro, ti convinci che nessuno capirà mai. Che nessuno potrà mai tirarti fuori.”

E i genitori? Quando chi si ritira è un figlio

Uno degli aspetti più complessi del fenomeno hikikomori riguarda le famiglie, e in particolare i genitori, che spesso si trovano spiazzati, preoccupati e frustrati di fronte a un figlio che si chiude nel silenzio e nella solitudine.

È importante capire che, anche se il comportamento può sembrare ostile o incomprensibile, non nasce da un rifiuto verso i genitori, ma da una sofferenza interiore difficile da esprimere. La stanza non è solo un rifugio, ma anche un luogo di auto-protezione da un mondo percepito come troppo aggressivo.

Ecco alcuni suggerimenti generali per chi vive questa situazione in famiglia:

  • Evitare il confronto diretto e i toni accusatori. Frasi come “Non puoi vivere così” o “Devi uscire” rischiano di aumentare il senso di colpa o la chiusura.

  • Mantenere un canale di comunicazione aperto, anche solo con piccoli gesti quotidiani: un messaggio lasciato sulla porta, un pasto condiviso, una presenza discreta ma costante.

  • Accogliere le emozioni senza giudicare. Mostrare che si è disponibili ad ascoltare, senza forzare un dialogo immediato, è più utile di mille consigli dati con la rabbia.

  • Cercare supporto professionale, sia per il figlio sia per sé stessi. A volte, anche i genitori hanno bisogno di uno spazio per elaborare il dolore, la frustrazione e il senso di impotenza.

Un percorso di counseling psicologico può essere una risorsa preziosa sia per chi vive il ritiro sociale, sia per i suoi familiari. Il counselor non impone soluzioni, ma costruisce una relazione di fiducia, in cui la persona può riscoprire il proprio valore e imparare ad affrontare le paure.

Il primo passo non è "uscire", ma sentirsi accolti nel proprio dolore, senza giudizio.

Con il tempo, anche chi si è chiuso al mondo può tornare a vivere relazioni significative, a sentirsi capace, e a riconoscere un posto nel mondo in cui si possa essere sé stessi.

 

L’hikikomori non è solo un problema di chi si isola, ma un dolore condiviso, spesso silenzioso. Serve tempo, pazienza, ascolto. E a volte, serve il coraggio di chiedere aiuto per smettere di sentirsi soli, anche quando si è insieme sotto lo stesso tetto.


Breve guida per i genitori


 

1. Accetta il ritiro come segnale di sofferenza, non come sfida o ribellione

Chi si isola non sta “facendo i capricci”, ma sta tentando di proteggersi da un mondo che percepisce come troppo pesante. Trattare il problema come una colpa rende solo più profondo il distacco.


2. Cambia obiettivo: non forzare l’uscita, ma ricostruisci la relazione

L’obiettivo non è "fargli riprendere la scuola" o "costringerlo a uscire", ma ristabilire un canale di fiducia. L’uscita, se arriverà, sarà una conseguenza naturale della relazione ritrovata.


3. Prediligi micro-interazioni regolari e non invasive

Un saluto affettuoso, una frase lasciata su un post-it, un invito gentile a cena. Piccoli gesti quotidiani servono a far sentire la tua presenza, senza invadere il suo spazio.


4. Evita il pressing costante, anche se fatto con buone intenzioni

Domande insistenti come “Quando esci?” o “Perché ti comporti così?” spesso aumentano il senso di fallimento. Meglio usare frasi aperte: “Come ti senti oggi?”, “Vuoi che ti ascolti senza dire niente?”


5. Chiedi aiuto anche per te stesso/a

Affrontare tutto da soli è faticoso e logorante. Un percorso di counseling può aiutarti a capire come sostenere tuo figlio senza perdere il tuo equilibrio. Anche il tuo benessere fa parte della sua guarigione.


6. Ricorda: il cambiamento richiede tempo

Non ci sono soluzioni rapide. Il ritorno alla vita sociale è un processo lento, che spesso procede per piccoli passi e possibili ricadute. Ma ogni apertura, anche minima, è un segnale importante.