PALERMO CRUDELE

Una biografia emotiva della mia città in versi scomposti

INTRODUZIONE


I pezzi che compongono Palermo Crudele (ancora inediti) sono operette sospese a metà tra la poesia vera e la frutta. Come ciliegie, l’una tira l’altra. Come poesie, possiedono una loro musicalità interna, un ritmo proprio che trasmette un certo piacere nella lettura. Sono intarsiate da una deliziosa leggera ironia, eppure è la malinconia che le attraversa che le rende più vicine all’idea che ho di cos’è poesia. Baudelaire una volta ha scritto, «La malinconia, sempre inseparabile dal sentimento del bello», esaurendo con ciò il novanta percento di quello che può essere detto sulla malinconia e sulla poesia.

Mauro Li Vigni fotografa, pesca dalla sua vita palermitana, anche dai momenti più comuni e anonimi, un’essenza che ha inevitabilmente due aspetti. Uno di bellezza, e l’altro di sofferenza per una bellezza rovinata, inattingibile o minacciata da inciviltà, attacchi mafiosi e insensibilità diffusa. Se non ci fosse quest’ambivalenza, questa raccolta apparirebbe molto meno profonda e infinitamente meno interessante. Invece come una donna tanto bella da farti stare male ti accalappia e ti strega, non annoiandoti mai, ma inducendoti a giungere fino alla fine di ogni poesia, per vedere come conclude, e alla poesia successiva, per trovare lo stesso piacere di prima. Lo stile ricorda un po’ quello delle poesie prosaiche alla Pavese; il verso è anarchicamente libero, mentre l’intento teneramente offuscato. Perché ambivalente, come ambivalente è il sentimento che sembra guidare l’autore. Amore o odio? Ovviamente tutti e due. E laddove finisce l’uno, inizia l’altro, in un circolo che si richiama e si auto-alimenta. Odio perché amo. Odio la Sicilia perché la Sicilia possiede una sconvolgente bellezza che i siciliani si affannano a distruggere. E amo persino quando odio, ché i più stupidi o beceri dei personaggi che popolano questi spazi, possiedono talora qualche nascosta grazia o simpatia che non può che intenerirmi e attrarmi. Io non so quale possa essere l’utilità di queste poesie. Wilde decretò una volta e per tutte che l’arte è inutile; eppure non muore mai. Sempre sorge e risorge questo bisogno di cantare il mondo che ci circonda, le nostre esperienze, belle e brutte, e specialmente quelle brutte. È un bisogno di creatività innato che ha fine solo in se stesso e si alimenta esclusivamente di se stesso. Una cosa però è certa: la capacità di mio padre di carpire sensazioni, frammenti di vite, atmosfere, sospensioni; la sua necessità di riflettere, ironizzare, dipingere, giudicare, intristirsi e subito dopo rinsavirsi, ci contagia e non ci lascia insoddisfatti. L’arte, sebbene tautologica, non ha affatto un esito onanistico. Non finisce cioè dove finisce il piacere del solo autore. Anche il lettore è coinvolto nel piacere, e anche il lettore esce fuori della ricezione estetica contento e soddisfatto. Il che credo giustifichi ampiamente queste pagine che seguono.

Fabrizio Li Vigni

8 settembre 2009, Barcellona