Scaccio Tamil


Avresti dovuto vederla

l’erba del primo giorno,

mare verde in riva al mare,

somiglianza dei sensi.

E tutti i decori di ceramica

polpi, meduse, trinacrie,

di cui adesso

solo frammenti.

Tra i birilli orribili

ci vedi ancora correre

gli atleti del mercoledì

coltivarsi l’infarto,

con la panza ancora gonfia

di ore inutili davanti al computer.

Poi mi sono cercato un cuscino

di erba ancora intatta

in quella distesa offesa

da schiticchi improvvisati,

dallo scaccio abbandonato,

reliquia di ruminanti

dall’anello d’oro pesante,

dalle collane confuse tra peli

e squarci di camice aperte sul petto.

Ho girato un po’

tra quell’umanità solidale

nella sua ricerca di svago,

nel suo vociare fragoroso,

trovando, infine, il mio angolo,

la mia mattonella

dove ho piantato il mio osservatorio.

Con le orecchie tappate

di suoni che mi porto sempre dietro,

colonna sonora ininterrotta,

ho scrutato lontano,

partendo dai bordi di quella folla offesa

e di quella offensiva.

A salvarmi

due figurine di festa vestite,

gli abiti lunghi tinti di toni forti.

Un parlare fitto tra loro

tra lo sciame delizioso

di capelli corvini

e di pelli brunite.

Intuivo già le loro parole

di linguaggi diversi,

anche così,

sordo di musica.

Di tanto in tanto

un velo di vento

a sollevare un lembo

per sottolineare

quella danza Tamil in avvicinamento.

Giunte all’obiettivo che ero io,

i tappi dell’Ipod conclusi,

ho frugato ancora nei discorsi loro

ritrovandoci fonemi di famiglia,

di quell’italiano che frequento.

La magia dell’esotico dissolta

nell’incanto di una integrazione rivelata,

compiuta,

serena,

futura.

Ho chiuso gli occhi

in pace con me stesso.