A giocare un ruolo fondamentale nella genesi di questo mio primo libro è stata la crescente insoddisfazione nutrita nei confronti della città di Palermo e maturata nei primi anni dopo il conseguimento della laurea. Poi i figli fanno il resto, perché finisci fatalmente a desiderare una vita migliore e più gratificante non solo per te stesso ma anche per loro. Nel '99, allora, mi sono deciso a fare un primo viaggio esplorativo a New York, città che non avevo mai visitato prima e di cui sapevo qualcosa grazie ai racconti di mia moglie che lì è cresciuta. Quel primo viaggio mi lasciò impressioni positive tali da spingermi a prendere la decisione di effettuare un trasferimento definitivo in quella città qualche anno dopo nel 2003. Poi e andata come è andata e sono tornato. Un volta tornato a Palermo ho cominciato a svegliarmi prestissimo la mattina, fatto del tutto insolito per me, e a sedermi al computer con estrema regolarità per scrivere i capitoli di questo che, allora, non sapevo ancora sarebbe diventato un libro. Io volevo solo scrivere il resoconto della nostra esperienza a New York per i miei figli che, all'epoca, erano ancora troppo piccoli per registrare in memoria tutti i dettagli delle vicende americane. Così l'ho fatto per me, per noi ma poi, vai a sapere in che modo, il manoscritto è finito nelle mani giuste e l'ha trasformato nel mio primo libro. Ancora adesso, quando mi capita di rileggerne qualche pagina, sorrido di me stesso.
[...] La strada in cui mi imbatto è quella di uno scrittore palermitano che ama raccontare e raccontarsi in tono scanzonato, ironico, senza venire meno ai temi che per secoli sono stati centrali di tanta letteratura siciliana. L’argomento in questione è uno dei tanti tormentoni del cittadino palermitano: “vado o resto?” Lì dove per andare si intende a cercare fortuna in un altrove non ben definito dove tutto è migliore che qui, e il restare corrisponde all’accettare il bello e il brutto della sicilianità. Mauro Li Vigni è uno di quelli che è andato e il suo altrove l’ha cercato a New York, portando con sé moglie e figli, e di questa esperienza riempie le pagine di un libro che si legge tutto d’un fiato, dove due cose sono garantite: la possibilità di sorridere e quella di ritrovarsi almeno in una delle vicende che l’autore racconta, tra trafile burocratiche, difficoltà con la lingua, traslochi, speranze, sogni e battute d’arresto. [...] all’autore va riconosciuto il merito della leggerezza, o meglio, di essere fra quanti tra le nuove leve palermitane hanno abbandonato certa letteratura piagnona in virtù di una capacità di allietare il lettore senza venire meno alla serietà dell’argomento trattato.
Deborah Pirrera
da: Feel Rouge Magazine
La curiosità mi uccide. Ho sempre voluto sapere cosa si prova a trasferirsi in un altro paese. Ho scrutato per anni, e con attenzione, chi ha avuto il coraggio di farlo cercando in loro i segni esteriori di quella avventura umana. Tracce, esiti minimi. Una ruga, un sorriso, un cenno, ma si riesce a intravedere ben poco da lontano e allora mi sono detto, perché non tentare? Ho deciso, quindi, di andare via verso altri luoghi e altre lingue. Le condizioni preliminari e indispensabili sono: l’irruenza, la pertinacia, un cuore di ghiaccio e una moglie con passaporto americano. E’ stata lei il mio lasciapassare verso il nuovo mondo.
Innanzitutto ci vuole un “atto”, un richiamo ufficiale che, una volta passato tra le maglie della burocrazia nordamericana, diventa visto di soggiorno. Mia moglie, residente in Italia, mi chiama a sé negli Stati Uniti. Non dovrebbe chiamarsi atto di richiamo ma “atto di invio”.
Mi preparo alla partenza predisponendo quintali di documenti e foto tessera complicatissimi da realizzare. Passati alcuni mesi raggiungo Napoli, sede dell’ambasciata americana. Mi sottopongo a visite mediche sommarie e a vaccini che non credevo mi mancassero, mi chiedo cosa avrà fatto mai mia madre quando ero piccolo. Un signore gentilissimo, dalle inequivocabili origini siciliane, mi comunica i miei diritti di nuovo semi-cittadino americano: non allontanarsi dal paese per più di un anno, pena la perdita della “green card”, non dedicarsi ad attività sovversive e amenità simili.