Che c’abbiamo in questa lingua
che si frantuma sul palato
che di erre ne fa minnitta
che di futuro nemmeno l’ombra?
Io ci provo a costruirmi un passepartout,
un english ammaccato
rigirato in salsa di speranza
quella di essere compreso
epifania che spesso mi accade
magia della comunicazione.
Ma noi siamo balatuni
refrattari come quelli del forno
poco inclini ad assorbire fonemi forestieri.
Isolani come siamo
crediamo di bastarci
e se magari qualcuno volesse
ci conquistasse pure
tanto i porti aperti sono coacervo di ricchezze parassite
che ci ritroviamo tra i piedi
sotto forma di monumento
o, più spesso, rovine.
Ma d’imparare altro eloquio
nemmeno a parlarne
compiaciuti come siamo dei ristretti confini
gli stessi che, sciolti nel sale marino,
t’appaiono più grandi.
A compensazione si ergono
paladini dall’armatura di carne dolce,
i gesti,
corollario indispensabile alla teoria sicula
che prima o poi il mondo
ti viene dentro
per tastare la milinciana
annegata nel fuoco di un pomodoro nostrano
o per liccare la sarda
o per il polpo sbattuto muri muri
o per i ricci accoppiati di buon umore
con gli spaghetti
inseparabili compagni di mille piatti
che non vogliono traduzione.
E dunque ignoranza
si fa orgoglio
che come piatto
di primo o di secondo
sempre fitinzìa è!
Palermo, Teatro Massimo 17 settembre 2009