Pollanche glamour


Mi fa strano vederlo qui

in questo Ombelico del mondo

pretenzioso ritrovo di giovani&carini.

Mi fa strano

ma l’ho visto ancora in giro

con la sua pelle abbruciata

tesa come il cuoio.

L’ho visto e sentito ancora abbanniare,

metronomo perfetto,

il suo mantra del business costiero:

Chesobelleepollanche!

L’ho fa da generazioni

senza sorriso

portandosi sulla spalla,

ormai sbilenca,

quella cassetta della frutta,

riarsa anche lei,

pesante come una balata

ricolma com’è di Chesobelleepollanche.

Va in giro con il suo urlo potente

in una fetta d’Addaura

stracolma di culi in vacanza

e di giovani che non rimorchiano più.

Il suo secco Chesobelleepollanche

l’ha ripetuto senza soste

come il vinile rotto di mio fratello,

lo stesso ritornello.

Poi si è fermato, pigro,

sull’orlo di un’ombra

in attesa della calca,

di quegli acquirenti che siamo noi

storditi dal sole,

intenti a tenere leggera la panza

per farci ancora un altro bagno,

l’ennesimo ultimo,

in attesa di bruciare vivi.

Chesobelleepollanche lo sa

che la fame alla fine ti coglie.

Per questo si rende immobile,

sfinge sotto il pico del sole.

Perché per lui è travagghiu

e con il pane non si scherza,

anche se si muore prima,

con le varici che sbummichìano dai polpacci

e magari alla fine pure il cancro.

Ma il pane ai figli gli si deve

e Chesobelleepollanche lo sa!

Quindi rimane immoto

mentre il mantra cambia:

Echesocalde adesso è l’invito

per spizzuliare  un accenno di pasto

una miraggio della tavola che non c’è.

Poi avverte che il suo tempo

è finito.

Segugio autentico

fiuta l’aria del disinteresse

e lascia il campo,

 silenzioso,

mentre l’orizzonte se lo inghiotte.

A me rimane la mia domanda

che per ore giro nella testa:

dove cazzo si rifugia?

dove estingue la sua sete di euro?

dove veste i suoi abiti civili?

dove i suoi picciriddi

che alleva a squadre?

Vorrei seguirlo,

sapere dove ripristina le scorte,

pagarlo per sentire la sua storia,

vedere la pignata dove fa bollire le pannocchie,

ascoltare la sua dignità di lavoratore.

Ma la mia pelle fragile

mi vieta di pedinarlo

sotto quel sole che mi mazzualìa la testa,

tra quei pizzi di rocce

e più in là

nella sabbia rovente

litorale agrodolce

che sembra più la sua casa

mentre noi,

solo gli ospiti,

i suoi.

                                                                                                                                                 8 agosto 2009