Ti devo dire dei miei sabati,
pomeriggi sprecati
alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i piedi.
Solo una botta di lagnusia
mi fa smuovere dal mio divano
quello con il buco al centro, proprio sotto il culo
quello giusto per coltivarmi l’ernia al disco,
e così
esco fuori a prendere la macchina
perché l’autobus è troppo lontano
o semplicemente non passa.
Turista obbligato
sopporto questa città dolente e avara,
mi infliggo il supplizio del traffico
che è ovunque
uno di quelli inutili
fatto di una macchina procapite
per girare in tondo
o per far visita allo zio Alfonso che sta male
o andare lungo il viale di questo paese grande
che si spaccia per città.
Questa volta la mia auto la riempio di famiglia
un figlio mi segue
e mi imbottisce di discorsi e di richieste
scambiandomi per un bancomat
(fortuna che non sa il codice)
e mi dice,
nel linguaggio della filosofia che frequenta,
del disgusto che gli ho contagiato,
degli amici che sono pochi,
e quelli veri ancora meno,
di una voglia diffusa di fuga,
e anche della sua che io sostengo
indebitandomi, se necessario.
Mi dice del desiderio di costruirsi
una dignità professionale
trovando qualcuno che lo chiami Fabrizio
dimenticando il suo imminente titolo; dottore.
Mi racconta di un fuggiasco diciottenne
rincorso dal fratello e non dal padre,
poi ritrovato nel trapanese
sereno e assente
come i motivi della sua scomparsa transitoria
prototipo dell’inconscio desiderio di perdersi.
Di tanto in tanto lo fermo
e mi fermo anch’io
a raccogliere un po’ di silenzio
uno di quelli che elabora,
uno di quelli che serve per seguire meglio
la produzione dei miei pensieri
dopo le parole che mi hai detto,
Uno di quelli che servono per ascoltare
il fondo dei rumori di questa Palermo
cartoccio splendido
per i dolci che non ci sono più!
Posteggio lontano
per camminare un po’,
per evitare multe da strisce blu invadenti.
Posteggio lontano
per non essere uguale a me stesso
palermitano convinto
di arrivare al punto, all’obiettivo
con tutta la macchina
lasciata, poi, lì davanti,
in doppia fila ordinata
contesa da posteggiatori fischiettanti
pu’ cafè dotto’
il centesimo del giorno.
I mie cinquanta centesimi
li tengo, invece, per il mio cornetto
e con loro i mille altri che non gli do’ quel giorno di giri.
Cammino un po’
per stordirmi di altoparlanti iper.
Dai finestrini aperti
valanga di ritmi e tristissime nenie
di quelle che mi fanno piangere la mamma
di disgusto
sentimento che non offende
chi ‘sta musica l’apprezza.
Allora giù con toni-colombo-gianni-celeste
e per i più colti
gigi-finizio-gigi-d’alessio
che non valgono le maiuscole.
Mi rimbocco il coraggio
e continuo a scansare le merde sotto le suole
sui marciapiedi rifatti
di balate fresche
coi soldi presi chissà dove dal mio sindaco,
che non vale le maiuscole nemmeno lui.
Incrocio gli odori dei panifici
mentre sfornano sfincioni
e pane con le olive
di quelle nere che grondano l’olio buono.
Cinque minuti così e arrivo al centro
dove condanno la mia assuefazione
alla bellezza invadente di un teatro che è Massimo
che sembra errore
in questa città di pane c’a meusa
e frittole e panelle e crocchè
e sempre cannoli
ma quelli di Piana, però!
Della Turandot o di un Verdi
morto nel secolo che ho amato di più
non senti parlare
nemmeno da chi a teatro ci va davvero,
perché c’ha vergogna
e orfano di interlocutori
si costringe al dialogo sui gusti
delle arancine
che come le fa quello nessun altro
che le migliori panelle
le trovi da San Francesco risorto
che da Savoca c’è la fila così
mentre l’Opera si rigira nervosa nella tua testa
e timida ci rimane
a ripetersi le sue strofe mute.
Poi arrivo all’incrocio
tra la via della Banca
e quella che diventa Maqueda.
Un semaforo di scarpe
e vestiti di primavera precoci
sui corpi già nudi degli adolescenti
pronti già per il mare
l’abbronzatura anticipata
quella del balcone
portata in giro sul motorino nuovo
senza il casco, così papà si incazza
e il vento frizzante
che ti arrizza le carni
ma il maglioncino di cotone
rimane avvitato sui fianchi
corona per i culi freschi di giovinezze senza letture.
Se guardi bene però,
ce li trovi pure i lettori
ma sembrano strapazzati dalla vita
o palliati, come dice mio figlio Karel.
Avranno pure cose belle da dirci
ma si presentano male
con la loro moda modello
Intellettualedimerdavestito
perché fa più intellettuale.
Nessuno che si prenda la briga
di consultare vocabolari
alla voce armonia
alla sottovoce
armonia-dei-contrari-equazione-possibile.
Poi mi ficco alla Feltrinelli
tempio nuovo del business della cultura
moderno, perfetto, senza anima
dimenticata nella sua sede di prima
dove gli amici erano a portata di voce.
Io invece qui
ci salgo e ci scendo
e ci presento pure i miei libri domani
ma tutte le persone con cui voglio parlare
e che voglio ascoltare
non le tengo tutte
in un solo sguardo.
Questa rete di voci che mi sfugge
mi fa cercare gli angoli nascosti
per accendere conversazioni
non visti da quel cazzo di altoparlante
che urla contro di me.
Mi rimane in mente una domanda però,
di quelle che fai
a chi sta andando a casa
a cucinare la pizza pronta
o il surgelato cotto in cinque.
Una domanda costante
di quelle con risposta multipla
e tutte giuste.
Perché ancora qui?
L’amore forse?
Codardia dei sentimenti.
10 maggio 2009
Ore 11.07